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28/03/2024

L'Italia e il Censis. Perchè ha senso sperare

Il nuovo rapporto annuale del Censis propone una panoramica sullo stato “emotivo” dell’Italia attuale, in cui sempre di più si acuisce la distanza tra realtà e percepito e in cui il pessimismo è all’ordine del giorno. Ma in un clima di generale sfiducia nel futuro, coltivare la speranza è il solo modo che abbiamo per poter costruire una realtà migliore. E in questo senso, il Sogno di Vittorio è un faro che ci guida.

 

 

L’ultimo rapporto annuale del Censis, attraverso cui si domanda agli italiani la più abusata ma al tempo stesso consistente questione, ovvero “come state?”, ci mette di fronte un quadro che parrebbe sconfortante: per l’80% degli italiani l’Italia è un Paese in inesorabile declino, il 69% degli intervistati ritiene che dalla globalizzazione abbia ricevuto più danni che benefici, il 60% teme che lo scoppio di una nuova guerra mondiale sia una concreta possibilità, a fronte della quale il 50% pensa che non saremo in grado di difenderci militarmente. 

Freddi dati, che però ci forniscono il polso della situazione: gli italiani sono sempre più pessimisti, disorientati nella complessità del presente, impauriti e sfiduciati. Il futuro, in questo quadro, è qualcosa di cui aver paura, da attendere con ansia, senza uno slancio di speranza e di fiducia. Trend confermato anche dai dati in merito alle nuove nascite e dagli espatri dei nostri giovani, gli esuli del nuovo millennio: l’Italia è infatti, oggi, il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone e sono più di 36.000 i giovani emigrati all’estero solo nell’ultimo anno, alla ricerca di felicità e futuro.

 

 

Non c’è dubbio che questi numeri si spieghino in ragione dello scenario economico, sociale e internazionale all’interno del quale ci troviamo a vivere in questi primi anni ‘20 del nuovo millennio: lo scoppio di una pandemia che ha sconvolto il nostro sistema di socialità e la conseguente crisi economica, la guerra che è tornata nel cuore dell’Europa, focolai mediorientali che bruciano con rinnovata virulenza, una crisi ambientale con la quale ormai è urgente fare i conti. Verrebbe da dire che di fronte a questa realtà, è difficile riuscire a coltivare speranza e fiducia nel futuro. 

Eppure noi ce l’abbiamo già fatta: abbiamo costruito, sulle macerie del secondo dopoguerra, un boom demografico ed economico che è stato alla base della rinascita del Paese. E lo abbiamo fatto in uno scenario di grande crisi, ma non permettendo che la depressione economica diventasse anche culturale. Anzi, il fattore culturale è stata proprio la chiave: una mentalità aperta verso il futuro, costruttiva ma soprattutto comunitaria. C’era la consapevolezza che “nessuno si salva da solo” e la dimensione collettiva è stata la cifra del secondo dopoguerra. 

Un po’ come avvenne per il nostro fondatore, Vittorio Tadei, che nel clima frizzante e stimolante della Rimini anni ‘60 ha fondato il primo negozio della Teddy. E se la Teddy è oggi la realtà inclusiva, felice e fiduciosa che conosciamo, è perché, a ben guardare, il nostro Sogno si identifica proprio con la speranza, intesa come molla esistenziale, inquieta e concreta che ci spinge ad una tensione positiva verso il futuro e le sue sfide.

 

 

Questo sembra essersi perso oggi: non ci può essere fiducia individuale nel futuro se non incastonata in una mentalità collettiva che traina tutti verso la stessa direzione. E in questo senso che viene spontaneo domandarsi quanto cause e conseguenze possano confondersi, se non sia un'auto alimentazione di pensieri negativi e distruttivi: insomma, quanto la nostra sfiducia nel futuro non sia essa stessa la causa della nostra infelicità, come una profezia autoavverantesi. 

Come spesso accade conta più la percezione della realtà: viviamo in un Paese più sicuro, più ricco e più libero di 50 anni fa, ma ci sentiamo complessivamente meno sicuri, meno liberi e più poveri, ma non abbastanza per trovare la forza di reagire. È quello che il rapporto Censis chiama “il sonnambulismo” degli italiani: la percezione di star attraversando l’ora più buia non è, come avvenne nel dopoguerra, la molla fondamentale, foriera di energia e fiducia, che spinge ad attuare un cambiamento. Ma anzi la depressione ha preso il posto dell’iniziativa. 

Più di 9 italiani su 10 preferiscono oggi la felicità delle piccole cose (il tempo libero, le relazioni personali): è in atto un cambiamento rispetto all’orizzonte collettivo all'interno del quale si inseriva la felicità degli anni ‘50. Ma questo non deve spaventare o indurci a credere a facili luoghi comuni sull’egoismo e la pigrizia dei giovani d’oggi: ogni generazione, ogni tempo storico ha la sua mentalità prevalente, diversa da quella precedente. L’aspetto importante, semmai, è che non si perda la speranza che accanto alla felicità delle piccole cose, possa esistere, vada scovata, la percezione empatica che si possa essere (più) felici se anche gli altri lo sono. Un processo di autoalimentazione, questa volta di pensieri positivi, generatore di energia, fiducia e speranza. 

 

@Emilio Salvatori / Wikimedia Commons

 

Proprio qui a Rimini, a ricordarci ogni giorno che la nostra felicità si identifica anche con quella degli altri c’è la prua di una nave, scultura di Arnaldo Pomodoro, come a dirci che siamo tutti sulla stessa barca e che se facciamo spirare il vento nella medesima direzione, tutti insieme, si naviga meglio.

 

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