TEDDY500STYLE
12/12/2023
Il sogno concreto di Vittorio e quello onirico di Federico
Vittorio e Federico, due figli della stessa terra, Rimini, e due sognatori. Il sogno inteso sia come matrice culturale ed esistenziale di due uomini di provincia vissuti nel secondo dopoguerra italiano, ma anche come cifra distintiva del Cinema felliniano, in cui la dimensione onirica e stralunata è la chiave del suo stile.
Le figure di Vittorio Tadei e Federico Fellini condividono entrambe il tema del sogno, un concetto apparentemente abusato ma estremamente complesso. Se il sogno di Federico Fellini ha a che fare con l’onirico, con l’irreale e il rarefatto che trova spazio nei discorsi psicoanalitici, quello di Vittorio Tadei è, piuttosto, un sogno fatto di concretezza; per quanto concreti possano essere i sogni. Vittorio Tadei, da uomo attento agli aspetti più concreti della vita, aveva sempre cercato nei sogni la concretezza necessaria per costruire quotidianamente il proprio percorso. Non privo di ostacoli.
Di Fellini si conosce oggi l’incontro con le teorie junghiane, grazie anche alle testimonianze raccolte negli anni, tra cui il documentario di Catherine McGilvray, dal titolo “Fellini e l’ombra”, sappiamo oggi molto di quello che a lungo è stato un segreto del regista. Il rapporto con il proprio analista, il dottor Ernst Bernhard, pioniere dell’analisi junghiana e che nel secondo dopoguerra romano ebbe grande influenza tra gli artisti, gli intellettuali e le grandi menti dell’Italia del tempo: Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg, Adriano Olivetti, Luciano Emmer e Vittorio De Seta furono tra i suoi pazienti. E Fellini stesso, per l’appunto. Per Fellini, la terapia junghiana, l’analisi e il rapporto con Bernhard furono carburante per le visioni surreali di 8 ½, con la passerella riconciliatrice di tutti i personaggi, pare fu addirittura suggerita dall’analista.
Come detto, quella felliniana è una realtà costruita a partire dal sogno, un sogno che il regista ha sezionato, analizzato e messo su carta, trasformato qualche anno fa in un testo edito da Rizzoli. Un testo unico, scritto e illustrato da uno dei più grandi geni della creatività italiana del XX secolo, appunto. Si intitola “Il libro dei sogni” e oltre a rappresentare una grande raccolta dei diari personali del regista riminese a partire dalla fine degli anni ’60 fino all’agosto 1990 è anche un insieme di appunti, abbozzi, spunti, schizzi e disegni, sono la messa a terra degli enigmi e degli arcani di un appassionato del misterio come Fellini. Un lavoro notturno, come notturni sono i sogni, un manifesto letterario e iconografico vagamente metafisico.
La stessa metafisica che entra nella vita di Vittorio Tadei in maniera improvvisa, inattesa, frutto di una perdita improvvisa. La perdita del figlio Gigi lo apre a quel mondo dell’intangibile che fino a quel momento sembrava essergli precluso. È qui che sviluppa un nuovo senso dell’esistenza, trovando anche ispirazione per qualcosa che diverrà centrale nel resto dell’esperienza Teddy: il lavoro e le fortune aziendali saranno sempre più legate alla condivisione del benessere generato con il territorio e le persone che gravitano intorno a questa grande famiglia allargata.
Non era magari un appassionato di immateriale Vittorio Tadei, ma questo non faceva certo di lui un uomo avaro di immaginazione, desideri, fantasie o speranze. Come quella di un sogno diverso, imprenditoriale, ma non per questo meno importante, di un’azienda capace di partire dalla provincia per arrivare ad espandersi nel Mondo. Un sogno che nel tempo è cresciuto e si è trasformato, fino al momento in cui è stato necessario trarre nuova linfa dalle nuove sfide che si sono presentate. In particolare per quanto riguarda la sostenibilità di un business e la necessità di una riflessione articolata sul vero scopo dell’essere imprenditori, su come si può far crescere un’azienda “senza puntare solo alla logica del profitto, creando valore non solo per gli azionisti, i manager e i dipendenti, ma per tutta la società e per il bene comune”. Di fatto solo sognando di poter compiere qualcosa di così vasto è possibile realizzarlo.
Il sogno concreto e umano di Vittorio Tadei si lega indissolubilmente con l’evoluzione e i cambiamenti della Rimini del dopoguerra. Dalle case distrutte, la scomparsa degli affetti e le famiglie allargate che dovevano dividersi tutto, fino agli anni del boom economico, la Riviera è stata musa e ispirazione costante per Vittorio. In fondo è proprio nella Rimini assaltata dai turisti, accogliente e voluttuosa degli anni ‘50 e ‘60 che vede la luce il negozio da cui prenderà poi forma, grazie al genio innovativo di Vittorio, la grande famiglia Teddy. È una creatività figlia del periodo che Fellini raccontava così: “Dopo la guerra i riminesi hanno fondato Rimini una seconda volta, l’hanno tirata su in libertà... viene fatta e disfatta continuamente”. La stessa Rimini che il regista racconterà grazie alla sua cinepresa: dalla Palata al molo sull’antico porto immortalato sia ne “I Vitelloni” che in “Amarcord”, il Cinema Fulgor, dove Fellini vide il suo primo film, “Maciste all’inferno”, e scoprì la magia della settima arte, fino ad arrivare al Grand Hotel simbolo della Belle Époque e dei desideri proibiti di un giovane Federico ripreso sempre in “Amarcord”. La Rimini che Fellini definì "un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare". Una Rimini che per entrambi ha rappresentato, in maniera onirica o meno, un pezzo di vita, un luogo dell’anima, la terra di un sogno.
Condividi su
BACK