“There is no failure in sport. It's not about failure, it's about steps to reach a goal. Day by day.” - “Non esiste il fallimento nello sport. Non si tratta di fallire, ma di raggiungere i propri obiettivi, passo dopo passo, giorno per giorno”. Giannis Antetokounmpo.
Con queste parole, Giannis Antetokounmpo — nato in Grecia da genitori nigeriani, cresciuto in povertà e diventato uno dei più grandi cestisti del mondo — ci ricorda che lo sport non è solo un campo di gioco. È una scuola di vita, una frontiera in cui ci si misura con se stessi prima ancora che con gli altri. Non esiste il fallimento, esiste la possibilità di riprovare. Di cadere e rialzarsi. Di costruire un sogno, passo dopo passo.
E forse è proprio questo che ci affascina, ogni volta, nel racconto sportivo: non la vittoria in sé, ma il viaggio. I dubbi, le cadute, i ritorni. La fatica trasformata in possibilità. Le storie di sport sono storie di umanità amplificata. E per questo risuonano profondamente con ciò che Teddy crede e porta avanti ogni giorno: la valorizzazione delle persone, la cultura della crescita personale, l’empowerment, la comunità.
Serena Williams, ad esempio, non ha semplicemente vinto 23 titoli del Grande Slam: ha aperto un varco in un mondo che non era pronto a vedere una donna afroamericana, muscolosa, forte e fuori dagli stereotipi, dominare sui campi di Wimbledon. La sua battaglia non è stata solo sportiva, ma simbolica: un’affermazione identitaria, culturale. In ogni sua smorfia di grinta, in ogni punto giocato col cuore, Serena ha mandato un messaggio chiaro: la diversità non solo ha valore, ma può diventare eccellenza. Ha saputo far parlare il suo corpo, la sua storia, la sua voce anche fuori dal campo, trasformando ogni intervista, ogni post, in una chiamata al risveglio collettivo. Ha messo in discussione modelli estetici, modelli sociali, e ha reso il tennis uno spazio più libero, più aperto, più umano.
Un percorso simile, per impatto e potenza, lo ha tracciato LeBron James. Cresciuto senza padre nella periferia di Akron, Ohio e divenuto uno dei più grandi sportivi di ogni tempo, ha trasformato il suo talento anche in un progetto educativo e sociale. Non si è mai accontentato del successo personale. Ha fondato scuole gratuite per bambini svantaggiati, ha denunciato episodi di razzismo anche quando gli sarebbe convenuto tacere, ha fatto della sua voce un megafono per milioni di giovani che non si sentono visti. LeBron ha dimostrato che un atleta può — e deve — essere anche cittadino, mentore, costruttore di comunità. La sua è leadership generativa, quella che sa costruire attorno a sé possibilità nuove, per sé e per gli altri.
E come non evocare Muhammad Ali? La sua boxe era danza, era rabbia trasformata in arte. Ma la sua grandezza si è compiuta quando ha detto no. Quando ha rifiutato di combattere in Vietnam, pagando con la squalifica e il disprezzo dell’opinione pubblica. In quel gesto c’era tutta la coerenza di un uomo che non ha mai avuto paura di perdere qualcosa pur di restare fedele a sé stesso. Ali non combatteva solo sul ring: combatteva per i diritti civili, per la dignità, per i più deboli. E nel farlo, ha insegnato che si può essere campioni anche fuori dalle arene. Anzi, soprattutto lì.
Ma lo sport non vive solo nelle grandi arene internazionali. È anche nelle pieghe delle storie di provincia, dove la gloria ha il sapore della fatica vera, della passione pura. Come il Cagliari di Gigi Riva nel 1970, che ha portato lo scudetto su un’isola che cercava il proprio riscatto attraverso lo sport. Era un’Italia ancora lontana dai grandi riflettori, quella. E Riva, uomo schivo e leale, ha scelto di restare lì, a Cagliari, rinunciando a club blasonati, per dare un senso più profondo alla parola “appartenenza”. Ha mostrato che il successo ha senso solo se condiviso con chi ti ha dato fiducia quando nessuno ci credeva.
O come il Verona del 1985, allenato da Osvaldo Bagnoli, un tecnico che non amava i riflettori, ma sapeva accendere la scintilla nei suoi ragazzi. In quella squadra non c’erano fuoriclasse: nomi come Garella, Elkjaer, Briegel, non hanno certo fatto la storia del calcio, non sono certo ricordati per il loro talento. Ma hanno tracciato un solco indelebile in una piccola grande storia di provincia. Quella vittoria fu uno shock per il sistema calcio, ma anche un inno alla competenza, all’intelligenza emotiva, al gioco collettivo.
E poi c’è il presente, fatto di nuove imprese che nascono lontano dai riflettori delle metropoli. L’Atalanta di Gasperini, per esempio, è diventata il simbolo del calcio che cresce dal basso. A Bergamo, una città che ha conosciuto la sofferenza come poche durante la pandemia, la squadra nerazzurra è diventata rifugio e speranza. Non ha mai avuto grandi budget, ma ha saputo costruire un’identità forte, un’idea di gioco generosa, coraggiosa. Ha valorizzato i giovani, li ha fatti sbocciare, fino a divenire protagonista del grande calcio europeo. Un esempio perfetto di come la visione, se condivisa e coltivata, possa superare ogni ostacolo.
Una storia simile, per emozione e impatto, è quella del Leicester di Claudio Ranieri nel 2016. Una squadra che, secondo i bookmaker, aveva meno possibilità di vincere la Premier League che vedere Elvis Presley vivo. E invece, partita dopo partita, ha saputo smentire ogni pronostico, ogni scetticismo. Con Vardy, attaccante ex operaio, che correva come se il campo fosse ancora il cantiere. Con Mahrez, scartato da tutti, diventato artista del dribbling. Una squadra che ha saputo credere, prima ancora che vincere. E che ha insegnato a tutto il mondo che nulla è impossibile, se si ha il coraggio di sognare insieme.
Anche in sport meno popolari si nascondono lezioni straordinarie. Come nel caso del curling italiano, che ha trovato in Cortina d’Ampezzo una piccola patria. Qui, tra i ghiacci delle Dolomiti, è nata una cultura sportiva capace di portare Stefania Costantini fino all’oro olimpico. In un Paese che conta poco più di 300 praticanti, quel trionfo è stato un segnale potentissimo: la passione e la cura fanno la differenza, anche nei contesti più improbabili.
Queste storie ci parlano anche di noi, della cultura Teddy, di quel sogno che ha guidato Vittorio Tadei: costruire un’impresa umana, prima ancora che economica, partendo dalla provincia per creare un’impresa divenuta multinazionale che è anche casa, scuola di vita, comunità viva. Una realtà che si fonda sul valore della persona, che crede nella possibilità di ogni individuo di essere imprenditore, proprio come un atleta che, giorno dopo giorno, lavora per diventare la sua versione migliore.
Ma lo sport, ancora prima di essere sfida, è uno specchio. È una possibilità di guardarsi dentro e riscoprirsi. Non serve essere campioni acclamati o nati con un dono speciale: ogni allenamento, ogni partita, ogni piccolo gesto di dedizione diventa occasione per conoscersi meglio. Lo sport ci chiede di essere presenti, autentici, di prenderci la responsabilità del nostro pezzo di campo, piccolo o grande che sia. E proprio lì, nella fatica quotidiana, nel confronto con i propri limiti, può nascere un senso. Un senso che non arriva solo dal risultato, ma dalla strada percorsa.
È questa la visione che Teddy condivide: credere che ognuno, nel proprio ruolo, possa essere campione di cambiamento. Che la vita, il lavoro, come lo sport, siano un esercizio di appartenenza e responsabilità. E che anche un piccolo gesto fatto con cura può trasformarsi in un passo verso la propria versione migliore. E allora sì, anche lo sport — nel silenzio di un allenamento mattutino, nella tensione di una sfida in provincia, nella gioia condivisa di un goal in oratorio — può diventare terreno fertile per coltivare ciò che conta davvero: il coraggio di conoscersi, la voglia di crescere, il senso di appartenere.