Il primo contributo di una nuova rubrica di Belong, che darà spazio a voci esterne provenienti dal mondo sociale, economico e culturale: persone che, come noi, condividono valori e riflessioni che ci stanno a cuore.
In questa nuova finestra sul mondo, accogliamo idee e prospettive diverse che ci aiutano a guardare la realtà e noi stessi attraverso lenti nuove, pur sempre filtrate dal nostro sogno e dalla nostra cultura aziendale. A inaugurare questa sezione, è Lorenzo Tedeschi, giovane imprenditore e manager impegnato nella promozione del benessere psicologico e del lavoro etico. Guida TeamDifferent, con cui porta il tema della salute mentale nelle organizzazioni, ed è curatore di ETHICAL HR, il festival del mondo HR etico e responsabile; scrive di fallimento e di salute mentale e cura l’edizione di alcune riviste centrate proprio sul benessere collettivo. Con il suo intervento, ci offre un punto di vista personale e innovativo su temi che sono al centro della nostra cultura aziendale: il benessere collettivo, il lavoro etico e l’impatto positivo che le imprese possono avere sulla società. Un nuovo viaggio su “Belong”, che ci parla di appartenenza, valori condivisi e autenticità.
Michael Novak, Vittorio Tadei e la sua ossessione per le brave persone
Sono anni, questi, in cui l’impresa è diventata un importante strumento di innovazione e progresso culturale. Anni in cui le organizzazioni sono chiamate a fare scelte consapevoli, virtuose, sostenibili e, soprattutto, responsabili per incoraggiare i cambiamenti e partecipare al benessere collettivo. A tutti i livelli.
Anni in cui, contrariamente a quanto ci insegnava la letteratura aziendale degli anni Novanta, quella economica non è più l’unica prospettiva da cui guardare un’azienda che cresce e il profitto non è l’unico indicatore di benessere. A questo, infatti, si uniscono fattori impensabili anche solo fino a dieci anni fa: responsabilità sociale, impatto sulla comunità e sull’ambiente, benessere dei collaboratori, ricadute sul territorio.
L’impresa, dunque, è il modo che hanno i leader di facilitare il bene comune e la dignità umana. A pensarla così non sono solo il filone ESG, gli stakeholder e gli enti certificatori. La pensa così anche la Chiesa Cattolica.
Quello di Michael Novak, un filosofo statunitense che ci ha lasciati nel 2017, è stato forse il più pionieristico dei lavori sulla cosiddetta teologia d’impresa, un nuovo modo di guardare alle imprese e agli imprenditori e, soprattutto, al capitalismo. “Verso una teologia dell'impresa” (1996), che vi consiglio di leggere, nasce dalle fondamenta poste da Giovanni Paolo II, tra i primi a sostenere che il mondo imprenditoriale non fosse incompatibile con il cristianesimo, che i capi d’impresa non fossero tutti brutti, sporchi e cattivi. Ma che alcuni di loro avessero un’intelligenza fuori dal comune, distribuissero la ricchezza in modo equo, migliorassero la vita delle persone e la comunità.
Si tratta di un “capitalismo democratico” che, se messo al servizio dei bisogni umani, può favorire la libertà umana e la spiritualità. E avvicinare le persone a Dio.
Nel febbraio 2011, presso la sede del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (PCGP), si è tenuto il seminario “Caritas in Veritate: la logica del dono e il significato dell’impresa”, ispirato all’enciclica sociale Caritas in Veritate di Papa Benedetto XVI. Al centro c’era la vocazione del leader d’impresa, che secondo la Chiesa Cattolica dovrebbe farsi guidare da alcuni principi fondamentali. Tra questi:
Torniamo a noi. Perché vi ho raccontato tutto questo?
Perché mi piace guardare a Teddy come a una cattedrale del lavoro etico. Mi spiegherò meglio.
Il potenziale trasformativo del lavoro
In pochi sanno cogliere le opportunità sociali e trasformative del capitalismo e a farlo di solito sono le persone che vedono nel lavoro uno strumento di crescita personale e sociale, non solo di sostentamento.
I cambiamenti e il progresso sociale ci hanno insegnato a vedere il lavoro anche come un’attività educativa e gli ambienti lavorativi come degli spazi in cui fare degli adulti delle persone migliori, grazie a una formazione che “umanizza” le persone e le rende protagoniste della loro crescita culturale e professionale (Macchietti, 2005). E a delle organizzazioni virtuose che vedono i lavoratori come “educabili” e che devono “saper fare” e “saper essere”.
Secondo la pedagogia, quindi, il lavoro è una sorta di educatore implicito capace di dare alle persone opportunità concrete per diventare ciò che vogliono essere e autorealizzarsi. Delineare un progetto personale di vita o di carriera, acquisire nuove competenze, assumersi delle responsabilità. E tutto questo è legato mani e piedi alla storia di Teddy e del suo papà, Vittorio Tadei.
Non so se effettivamente Vittorio si ispirasse a testi sulla leadership trasformazionale come “Rebel Leadership: Commitment and Charisma in the Revolutionary Process” (James V. Downton, 1973) o a “Leadership” di James Burns. Ciò che è certo è che papà Tadei era un filosofo e non lo sapeva.
Un uomo che fin dal primo istante mi è arrivato come complesso e impegnato, guidato da un unico, grande valore professionale: dare attraverso l’azienda dignità alle persone e offrire loro l’opportunità di cambiare vita. E un senso di responsabilità sociale ben radicato che faceva del patron di Teddy, come si evince dalle testimonianze, un imprenditore innamorato delle brave persone, a prescindere dal loro background tecnico-professionale.
Tornando a noi, l’etica e il lavoro sono argomenti che si piacciono a vicenda, e a far scattare l’amore sono stati i filosofi: Weber credeva in una cultura d’impresa etica e condivisa, a partire dai profitti. Kant scriveva che il lavoro fosse molto più che un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma avesse il potenziale per dare senso alla vita delle persone. Senza trascurare la legge morale e il bene comune, che devono restare una priorità. Il pensiero alla base dei filosofi e della leadership trasformazionale, così come quello di Vittorio, si fondava sull’idea che il lavoro non sia un male da estirpare o un fenomeno sociale da combattere. Il lavoro non è nemico del benessere delle persone o del loro tempo libero. Se organizzato in modo etico, il lavoro è una palestra di vita e autostima, essenziale per il riconoscimento sociale, per aprirsi all’altro e scoprire le proprie unicità.
Che poi è esattamente il merito di donne e uomini di impresa come il papà di Teddy: lavorare con etica e morale per far star meglio chi gli stava intorno. Anche a costo di lasciarsi corrodere dal senso di responsabilità e dal suo giudice interiore.
Per lo psichiatra Viktor Frankl il senso del lavoro era scoprirsi unici e capaci. Per Tadei era dimostrare che alla fine vincono sempre le brave persone.
A Vittorio (e a mio padre)
Entrambi paterni e baciati dal desiderio di vedere star bene chi vi circonda. Tanto rigidi quanto terrorizzati dal fallimento. E severi, soprattutto con voi stessi.