L'abbigliamento è spesso anche una chiave espressiva di noi stessi: dalle taglie inclusive, all’emancipazione, fino alla manifestazione del proprio essere.
Poche cose più dell’abbigliamento permettono alle persone di compiere una scelta al tempo stesso semplice e rivoluzionaria. In fondo potrebbe sembrare un fatto abusato, ripetitivo, superficiale, quello di mettersi addosso qualcosa ogni mattina. Ma non è così. Tutto il contrario anzi.
Senza scomodare la famosissima scena del film “Il diavolo veste Prada”, in cui Miranda Priestly (Meryl Streep), leggendaria direttrice di una rivista di moda, impartisce una lezione di stile a Andrea Sachs (Anne Hathaway), giovane neo assunta nella rivista, senza alcun interesse o inclinazione nei confronti della moda e dell’abbigliamento, è chiaro che il modo con cui decidiamo di vestirci, ogni giorno, è la forma più immediata, ma non per questo superficiale, in cui comunichiamo al mondo chi siamo.
Ed è un fatto che in realtà prescinde (per quanto possibile) dalle forme della moda, è qualcosa di ben più consistente, che tracima in una dimensione antropologica e sociologica. Ha a che fare, infatti, con l’uomo e la sua socialità e soprattutto con la sua volontà di rivendicazione di una propria unicità o al contrario di appartenenza ad un gruppo socio - culturale omogeneo, comunque di affermazione della propria identità.
E affermare la propria identità, anche attraverso la scelta dei vestiti che indossiamo, è, a ben guardare, una forma di libertà: la libertà di esprimere attraverso il nostro abbigliamento la nostra natura, i nostri gusti, le nostre scelte, grandi o piccole che siano.
La costruzione dell’identità di ciascuno, passa anche e soprattutto da piccole scelte quotidiane, come può essere quella dell’identificazione del nostro stile, in cui ci riconosciamo, finalmente liberi di essere noi stessi, senza infingimenti. In questo senso, come Gruppo Teddy, siamo orgogliosi di essere, sin dalla nostra nascita, uno strumento di libertà accessibile a milioni di persone.
Del resto, la storia ci ha insegnato che spesso la produzione di un semplice capo di abbigliamento, è in realtà molto di più, può trasformarsi in una vera e propria rivoluzione culturale e sociale: è il caso della minigonna. Simbolo degli anni ‘60, nasce da un’intuizione della stilista inglese Mary Quant che nel 1963, ispirata anche dalle giovani donne di Londra che avevano iniziato a tagliare le proprie gonne per accorciarle, mise in produzione la prima minigonna. Negli anni è diventata molto più di un semplice capo di abbigliamento, appunto, ma un vero e proprio simbolo della liberazione femminile, della liberazione sessuale, uno strumento di lotta per l’emancipazione delle donne e del loro diritto di scegliere liberamente come vestirsi, senza dover sottostare alle stringenti convenzioni sociali dell’epoca.
Una parabola simile e forse ancora più rivoluzionaria è quella del Bikini: basti pensare che si chiama così perché proprio negli stessi giorni della sua invenzione (luglio 1946) gli USA stavano testando la bomba atomica nelle Isole Bikini. Questo aneddoto chiarisce forse più di molte analisi sociologiche l'impatto che ebbe l’invenzione del Bikini nella società benpensante dell’epoca. Si trattava di un costume da bagno femminile, ideato da Louis Réard, un ingegnere che aveva appena rilevato l’attività di lingerie della madre, ancora una volta figlio di un’intuizione nata dall’osservazione della realtà: aveva visto, infatti, molte donne che sulle spiagge di Saint tropez arrotolavano il proprio costume il più possibile per difendersi dal caldo e per ottenere un’abbronzatura più omogenea. Allora gli venne l’idea di creare un capo di abbigliamento che aveva “la colpa” di scoprire l’ombelico delle donne e per questo per molti anni fu duramente osteggiato dallo stesso Vaticano e dalla maggioranza delle istituzioni dell’epoca perché considerato troppo audace, immorale, peccaminoso. Bisognerà aspettare la seconda metà degli anni ‘50 e poi tutti i ‘60, perchè il Bikini si imponga come costume da bagno che sempre più donne scelgono al mare, per rivendicare la propria libertà, il proprio diritto alla felicità, anche grazie alla scelta di dive come Rita Hayworth o Brigitte Bardot di indossarlo, rendendolo un capo cult.
L’importanza dell’impatto sociale dell’abbigliamento è sottolineata dalla diffusione delle taglie inclusive, ovvero della possibilità di poter scegliere liberamente il proprio stile, senza che un’ideale forma di bellezza canonica che contempla solo alcune taglie lo renda impossibile. La moda e i gusti cambiano, quello che era rivoluzionario 60 anni fa non lo è più adesso e la società attuale esprime nuove sensibilità e nuove sfide. Ma le scelte di libertà restano. Resta il diritto alla felicità, all'autenticità e all'unicità. E, spesso, passa anche dalle nostre apparentemente piccole scelte quotidiane.
Resta il diritto alla felicità, all'autenticità e all'unicità. E, spesso, passa anche dalle nostre apparentemente piccole scelte quotidiane.