OPERE
08/11/2016
Dal Bangladesh le storie di Franca
Chalna: il villaggio dove vivono insieme musulmani, indù e cristiani
“P.R. è la più grande di tre fratelli, cresce con lo zio perché il padre l’ha abbandonata quando aveva solo sei anni. Quando termina, la decima classe i parenti l’invitano a sposarsi perché non riescono a farsi carico dei suoi studi”.
A parlare è Franca, referente della missione dell’associazione Papa Giovanni XXIII in Bangladesh, un Paese che conosce bene vivendo lì da 18 anni. Siamo nel piccolo e sperduto villaggio di Chalna. Per fortuna la storia di P.R. continua: “P.R. è arrivata da noi, in una delle nostre case famiglie e grazie al sostegno di una di queste lei ha potuto continuare i suoi studi e ne è davvero felice”.
Nel piccolo villaggio di Chalna nelle case famiglia della missione sono state accolte nel 2015 sessantacinque persone, come per esempio la piccola K.: “Una bambina di una famiglia molto povera ma un vero e proprio genio tra i banchi di Scuola. L’abbiamo sempre sostenuta negli studi. – continua Franca – Dopo il college K si è iscritta a un corso per diventare paramedico della durata di 5 anni e ora lavora presso l’ospedale in cui ha fatto il tirocinio”.
Queste sono solo alcune delle storie della missione che, tra musulmani, indù e cristiani, porta avanti diversi progetti che vanno dall’accoglienza all’educazione fino all’aiuto ai disabili, senza tetto e ragazzi di strada. Al suo interno ci sono sette case per l’accoglienza, una grande scuola di tre piani e una struttura che ospita una mensa, un centro di fisioterapia e un ambulatorio con dispensario. Ogni anno con gli interventi sono raggiunte più di 1.300 persone.
Dal punto di vista dell’educazione sono state realizzati una scuola materna e classi per bambini disabili, laboratori di cucito e ricami per disabili più grandi, sostegno allo studio per 700 bambini e ragazzi in difficoltà. L’anno scorso sono state introdotte, per la prima volta, anche lezioni di danza per le bambine e lezioni di calcio e ginnastica per i maschietti.
“Maledetto da Dio”. In Bangladesh, è questo il terribile appellativo rivolto alle persone affette da disabilità, tra il 10% e il 15% della popolazione (dati Organizzazione Mondiale della Sanità). Una macchia, che segna indelebilmente la loro esistenza e quella dei familiari. Su questo all’interno del Paese dominano tutt’ora il pregiudizio, la superstizione e l’ignoranza e a causa di questo tanti di loro trascorrono le giornate sul pavimento di povere baracche di fango, spesso legati e in condizioni igienico – sanitarie molto precarie.
Arrivati nel 1999, i missionari subito nel 2000 hanno attività un centro di fisioterapia, l’unico nel raggio di 30 km, dove dal lunedì al sabato vi lavorano cinque assistenti fisioterapisti locali, affiancati per alcuni periodi dell’anno da volontari italiani.
“Proprio la fisioterapia nel doposcuola è stata la salvezza per B., – sottolinea la missionaria – un giovane ragazzo disabile che dall’età di sei anni è accompagnato dalla sua mamma tutti i giorni per fare esercizio. Da quando il piccolo ha iniziato a camminare la madre, si accorse di quella gambina destra che non gli reggeva, sicuramente a causa di una paralisi infantile. Così grazie all’esercizio di tutti i giorni, B. riesce a usare la stampella da solo anche per piccoli tratti”.
Nel 2015 sono stati seguiti 72 bambini, in prevalenza giovani cerebrolesi, con problemi ortopedici e neurologici, persone colpite da ictus e vittime di incidenti. Nel corso dell’anno sono stati acquistati anche dei nuovi lettini e attrezzatura per i pazienti. Dispositivi e utensili utili anche per M., la piccola è arrivata per fare terapia quando aveva 2 anni: “Ora ne ha 15, anche se non li dimostra”, racconta Franca.
All’epoca non solo non stava seduta, ma non aveva alcun controllo del suo corpo. La sua famiglia era poverissima ed anche i suoi due fratelli minori presentavano limiti di comprensione. Oggi M. cammina e frequenta una delle classi per disabili della missione. La terapia che fa tuttora è fondamentale per la sua salute, in quanto ne potenzia l’equilibrio e la aiuta a camminare in modo corretto.
“Altra storia – conclude Franca – è quella di S., hindu oggi ha 36 anni. Si è sposata circa 14 anni fa, il marito non ricevendo la dote promessa l’ha colpita alla spina dorsale con una bottiglia causandole danni permanenti, l’ha ripudiata e la donna è tornata a casa. Si è risposata con un altro uomo, rimanendo incinta. Al 4 mese il marito voleva farla abortire, l’ha picchiata e se né è andato. La donna dopo il parto ha avuto un crollo fisico, non riusciva a muoversi. Così, nel maggio del 2006, i parenti l’hanno portata al centro. Dopo le cure S. sta meglio le sono state fornite delle stampelle ed una sedia a rotelle che l’aiutano a vivere nella quotidianità”.
Altro dato preoccupante è che più del 16% della popolazione adulta soffre di disturbi mentali, più donne che uomini. Anche in questo caso sono persone emarginate e discriminate. Per questo è nato anche il progetto psichiatrico che nel 2015 ha prestato assistenza a ben 355 persone affette principalmente da schizofrenia, disturbi bipolari, ritardi mentali, depressione e ansia.
Non solo le disabilità, ma anche la fame e la povertà sono realtà quotidiane rispetto alle quali la missione cerca di dare una risposta.
Così oltre 1000 pasti, tra colazioni, pranzi e cene, sono stati distribuiti alle persone coinvolte in un altro importante progetto quello di sostegno alla nutrizione. Grazie al Programma Latte è stato fornito latte in polvere a 102 individui fra neonati senza famiglia o persone affette da disabilità tali da non consentire loro l’assunzione di alimenti solidi.
Ancora oggi buona parte della popolazione bengalese non ha accesso a cure adeguate. Il numero di medici è molto esiguo in rapporto agli abitanti e le prestazioni sanitarie fornite non sono sempre di qualità. E ancora, ben 145 persone sono state aiutate nel progetto sanitario fornendo piccoli contributi per l’acquisto di medicine.
“Nel Bangladesh la piaga della povertà è un problema grande, ed è per questo che sono venuta. – svela la donna – Poi, oltre al partire, c’è la scelta di restare. Ho trovato la mia motivazione nel Signore, nel dire “sia fatta la Sua volontà”. Sarei tornata a casa appena due anni dopo il mio arrivo, un po’ per le fatiche e un po’ perché mi sarebbe piaciuto essere un’apripista, un’ispirazione per nuove missioni con altri volontari; invece poi ho capito, anche grazie a Don Oreste, che il mio posto è questo. A volte mi sembra di essere qui da una vita, altre volte invece percepisco tutta l’estraneità a causa di una cultura locale profondamente diversa dalla mia, dalla nostra”.
Continua Franca: “La missione oggi è un luogo vitale, frequentato ogni giorno da più di 700 persone. Qui non sono abituati alla gratuità e si chiedono per quale motivo lo facciamo. Questo smuove le coscienze. All’inizio della missione abbiamo accolto tutti, senza distinzioni di caste e religioni, e da parte dei musulmani c’è stata un po’ la paura che noi volessimo convertire quei bambini. Invece quando poi hanno visto e capito le nostre intenzioni, apprezzano molto il fatto che accogliamo piccoli e grandi e soprattutto quelli che nemmeno i genitori stessi riescono a gestire, che siano disabili gravissimi o ragazzini di strada. Alla base c’è l’obbedienza alla vocazione. Se la Comunità ci chiama a condividere in modo diretto la vita con i poveri, qui ci sono davvero i poveri più poveri!”.
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