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L’arte dell’ospitalità: lo sguardo che crea relazione

Federico Menetto dialoga con Will Guidara, The Bear e la cultura di Teddy

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Per spiegare davvero il concetto di ospitalità, Federico Menetto, consulente per lo sviluppo di progetti business nel mondo enogastronomico e nell' hospitality, parte da quella tradizione tutta italiana del “saper fare” che spesso va di pari passo con il “saper accogliere”. «L’ospitalità non significa solo accogliere in un luogo», racconta. «È aprire uno spazio interiore: fare posto dentro di sé perché l’altro possa entrare davvero».

Secondo Menetto, l’ospitalità nasce da un gesto umano e non scontato: la capacità di innamorarsi delle persone, anche solo per un istante. È lì che nasce la generosità. «Tutti sappiamo riconoscere l’ospitalità quando la incontriamo, anche se spiegarla è difficilissimo. È un modo di guardare l’altro, di coglierne il desiderio prima ancora che venga espresso».

E ancora, nel suo significato etimologico e nell’evoluzione che l’ospitalità ha avuto nel tempo, la radice della parola rimanda a un atto di responsabilità e di cura: «Prendersi cura di una persona significa prendersi cura del suo desiderio. Ai ragazzi dico sempre: provate a scommettere sul sentimento con cui qualcuno entra in un ristorante. Se una persona ha fretta, accoglierlo non vuol dire proporre mille alternative perfette, ma guardare di cosa ha realmente bisogno».

Lo sguardo, per Menetto, rappresenta il punto di partenza. «L’ospitalità è una scommessa sul sentimento che precede l’incontro. Significa interpretare un bisogno prima che venga espresso, cogliere fra le righe».

È lo stesso principio che Will Guidara (imprenditore e co proprietario del gruppo che aveva in gestione l’Eleven Madison Park), racconta nel suo libro “Un servizio perfetto”, quando descrive l’arte di “leggere il tavolo” come quella intuizione che permette di anticipare un bisogno, trasformando un semplice servizio in un’esperienza memorabile. Il suo racconto del ristorante Eleven Madison Park mostra come una sorpresa preparata con cura, attraverso un dessert improvvisato, una bottiglia offerta, un gesto inaspettato, possa trasformare una cena in un ricordo indelebile. Ma c’è di più, Guidara sostiene in modo chiaro, che l'ospitalità ha a che fare con il desiderio di prendersi cura: “ci tengo che tu sia qui e che tu stia bene”. Per quanto semplice possa sembrare, questa intuizione ha portato l’Eleven Madison Park ad essere uno dei migliori ristoranti al mondo, un luogo dove la cura diventa veicolo di incontro e di legame. Guidara però, aggiunge anche un monito fondamentale: “non puoi aspettarti che il tuo team tratti i clienti in un modo in cui loro stessi non vengono trattati”.

Ed eccoci quindi ad una domanda cruciale: se l’ospitalità è un tratto umano, pur se non comune a tutti, come si impara a guardare l’altro in questo modo?

«Viviamo schermati da mille strati che ci allontanano dagli altri - continua Menetto -. Siamo multitasking, distratti. Chi ospita deve saper leggere questa nuova condizione umana. Trovo poco ospitale giudicare le abitudini contemporanee, come usare il telefono durante un pranzo. Accogliere davvero significa partire dalla persona per come è, non per come pensiamo dovrebbe essere. Non tutti sono naturalmente ospitali, ma ci si può allenare. L’ospitalità è una strategia culturale che può essere fatta propria. Non basta essere gentili e non è solo questione di empatia: è una scelta, un carattere che si dà all’azienda. Ha più a che fare con il design, il modo in cui pensi gli spazi e le relazioni, che con la semplice gentilezza».

È lo stesso tema messo in campo da uno degli episodi più intensi della serie “The Bear”, Forchette, un episodio che si snoda tra caos, ferite familiari e riconciliazioni improvvise. In quella storia, l’ospitalità non è un servizio perfetto, ma un atto di riconoscimento emotivo. Un gesto che tenta di lasciare spazio a qualcuno anche quando è difficile. È una scelta radicale e rivoluzionaria: l’ospitalità nasce quando si sceglie di vedere l’altro.

Per noi del Gruppo Teddy, che abbiamo posto l’ospitalità al centro del nostro purpose, insieme al desiderio di vestire il mondo di bellezza, questo aspetto è un nodo fondamentale del nostro percorso di crescita. Non solo comprendere il significato profondo dell’accoglienza, ma renderlo vivo, trasmissibile, condivisibile da tutti i nostri collaboratori. L’ospitalità è per noi una sorta di ideale dell’incontro, un modo di far sentire l’altro riconosciuto, rispettato, valorizzato che lo si accolga nei nostri uffici, nei nostri store online o nei nostri punti vendita. Non come rituale o abitudine, ma come modo autentico di guardare, capace di generare fiducia e creare legami duraturi.

Ma cosa azzera davvero la distanza? E soprattutto, nel mondo delle aziende, dove tutto sembra dover seguire un modello, come si integra qualcosa di fluido e dinamico come l’ospitalità con una strategia concreta?

«L’ospitalità fa parte di una strategia» ammette Menetto, «e porta vantaggi enormi: crea un valore aggiunto altrimenti difficile da conquistare. Ma non è un processo. È qui che molti manager sbagliano: confondono ospitalità con la cultura della perfezione. L’ospitalità è la cultura dell’errore, della libertà. Le persone sono imperfette, e lo siamo anche noi che accogliamo. Non si può essere ospitali ignorando la nostra imperfezione».

L’errore non è un fallimento, ma un linguaggio. È quel margine di umanità che permette all’incontro di accadere davvero. In questo, Guidara e The Bear dicono la stessa cosa: non esiste un “servizio perfetto” senza un cuore vulnerabile.

Dunque, se Guidara ci insegna che l’ospitalità trasforma uno spazio in una relazione, e The Bear che quella relazione può emergere anche dal caos, allora la nostra quotidianità consiste nel portare questo sguardo in ogni luogo in cui operiamo.

È un gesto che modifica il rapporto tra le persone, e di conseguenza anche il legame con il brand. Ed è lì che l’incontro diventa relazione autentica.