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belong to everyone

Lavorare per appartenere: cosa cercano davvero i giovani nel lavoro oggi

Perché i giovani non cercano solo un lavoro, ma un luogo in cui sentirsi parte di qualcosa.

Silvia Zanella,Generazione Z,Lavoro
Silvia Zanella

Tra le voci che popolano Belong, vogliamo dare spazio a chi, con lucidità e passione, sa leggere le trasformazioni del lavoro contemporaneo e restituirle con parole nuove. Silvia Zanella è una di queste voci. Manager e autrice del libro Basta lavorare così – un invito radicale a ripensare il lavoro come spazio di senso e relazione – Zanella è anche tra le più attente osservatrici delle nuove generazioni, del loro desiderio di autenticità, benessere e libertà.

Silvia Zanella con il suo libro
Copertina "Basta lavorare così"

Attraverso il suo blog, la newsletter e una presenza attiva su LinkedIn, accompagna una riflessione collettiva su come il lavoro possa tornare a essere un’esperienza umana, generativa, capace di valorizzare ogni singola persona nella sua interezza.

In questo contributo – che sentiamo vicino alla nostra visione di impresa come comunità – Silvia ci guida dentro una trasformazione già in atto: quella di una generazione che non vuole più “essere il proprio lavoro”, ma “appartenere” a un luogo in cui crescere, esprimersi e contribuire davvero. 

di Silvia Zanella

Non è vero che i giovani non hanno più voglia di lavorare. È che non hanno più voglia di lavorare così. Questa riflessione nasce non solo dall’osservazione, ma anche dal mio vissuto: negli incontri, nei dialoghi, nelle storie che ascolto ogni giorno, emerge una ricerca di senso che va ben oltre la semplice occupazione. Chi si affaccia al mondo del lavoro oggi desidera sentirsi riconosciuto, avere spazio per esprimere la propria identità, contribuire con autenticità. Il lavoro non è più solo un’etichetta da esibire o una voce sul curriculum: è un luogo in cui si desidera essere visti come persone, non solo come ruoli.

La Generazione Z ha rotto con il mantra “io sono il mio lavoro”. Spesso, osservando le fatiche delle generazioni precedenti, ha imparato che il valore di una persona non si misura dal titolo in calce a un’email o dall’ammontare della busta paga. Vuole portare in ufficio tutte le proprie sfaccettature: passioni, competenze, fragilità, esperienze di vita. E si aspetta che le organizzazioni siano pronte ad accoglierle come persone, non a incasellarle come numeri.

Giovani a lavoro

Il concetto di appartenenza, per chi oggi cerca lavoro, non è uno slogan vuoto. È una richiesta concreta: sentirsi parte di una comunità che sappia ascoltare, valorizzare e rispettare le differenze. I giovani non cercano un’azienda-mamma, ma un contesto in cui crescere, imparare, sbagliare, contribuire con la propria unicità. Il benessere psicologico è diventato un criterio imprescindibile nella scelta di un impiego. Non si tratta solo di benefit o smart working, ma di ambienti in cui le emozioni non siano considerate un ostacolo, dove si possa parlare apertamente di stress, ansia, desiderio di equilibrio. Il wellbeing, per chi entra oggi nel mercato del lavoro, non è solo assenza di burnout: è la possibilità di apprendere, di sentirsi parte di un progetto significativo, di costruire relazioni autentiche. È anche la libertà di dire “no” a dinamiche tossiche, a capi incapaci di ascoltare, a colleghi che alimentano la competizione invece della collaborazione. La flessibilità non è più un privilegio, ma una condizione necessaria. I professionisti più giovani chiedono autonomia, fiducia, la possibilità di organizzare il proprio tempo e i propri spazi. Vogliono scegliere quando e dove lavorare, senza essere valutati in base alla presenza fisica o alle ore trascorse davanti a uno schermo. E soprattutto, vogliono che il lavoro lasci spazio alla vita: alle relazioni, alle passioni, alla cura di sé.

I dati lo confermano: secondo le ultime ricerche, il 73% della Gen Z e il 78% dei Millennial italiani considera la sicurezza psicologica e il work-life balance criteri fondamentali nella scelta di un impiego. Quattro under 35 su cinque lascerebbero il proprio lavoro se costretti a rinunciare alla flessibilità. Famiglia, amicizie, tempo libero contano più della carriera. Non è una questione di “giovani viziati”: è una trasformazione culturale profonda, che riguarda tutti e che le imprese non possono più ignorare.

Ragazza con libro

Ma non tutte le aziende sono ferme a modelli obsoleti. Alcune, da anni investono su cultura dell’ascolto, inclusione, crescita delle persone. Qui la cultura aziendale non è solo dichiarata, ma vissuta: si promuove il dialogo, si riconosce il contributo di ciascuno, si investe nella formazione e nella creazione di spazi di confronto. La leadership si fa servizio, la crescita è condivisa, l’organizzazione del lavoro è pensata per valorizzare la diversità e favorire la partecipazione.

Il senso di appartenenza si costruisce giorno dopo giorno, attraverso gesti concreti di fiducia, ascolto, responsabilità condivisa. Le aziende che sapranno evolvere da semplici luoghi di produzione a vere comunità di crescita saranno quelle capaci di rispondere alle nuove aspettative. Appartenere, per chi oggi cerca lavoro, significa poter portare nella sfera professionale la propria storia, le proprie passioni, le proprie fragilità. Significa non dover indossare una maschera per otto ore al giorno, ma sentirsi accolti per ciò che si è, con tutte le proprie sfumature. È la richiesta di essere trattati da adulti, di poter esprimere opinioni, emozioni, idee senza timore di essere giudicati o penalizzati.

Le nuove generazioni sono cresciute in un mondo segnato dalla precarietà, in cui i confini tra vita privata e lavoro sono sempre più sfumati. Hanno visto genitori e fratelli sacrificarsi per aziende che spesso non hanno restituito quanto promesso. Per questo oggi chiedono chiarezza, coerenza, rispetto.

In questo scenario, il ruolo delle imprese cambia radicalmente. Non basta più offrire benefit o aumenti di stipendio. Serve costruire una cultura organizzativa che valorizzi la diversità, promuova il dialogo, riconosca e premi il contributo di ciascuno. Serve investire nella crescita personale, nella creazione di spazi di ascolto e confronto. Serve, soprattutto, il coraggio di mettere in discussione modelli e pratiche che non funzionano più.