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Siamo tutti Belve? Il trionfo della tv verità ci fa scoprire l'importanza dell'autenticità (anche sul lavoro)

Nel mondo dello spettacolo come in quello dell’impresa, c’è una sfida che non passa mai di moda: essere autentici. Belong, come Belve, mette al centro le persone e le loro storie, senza copione. In un tempo che ci chiede di essere veri, il racconto genuino è spesso il modo migliore per sentirci parte di qualcosa che conta.

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Si è appena chiusa una nuova stagione di Belve: e ancora una volta Francesca Fagnani ha colpito nel segno. La ricetta è semplice – due sedie, due persone, una manciata di domande scomode – ma funziona. E funziona perché ci fa vedere qualcosa che di solito viene nascosto: la verità, con tutti i suoi inciampi.

Niente effetti speciali. Solo pause, silenzi, esitazioni. Difetti che non vengono tagliati via. E forse è proprio per questo che ci appassiona: perché ci somiglia più di quanto vogliamo ammettere. Perché rende evidenti le nostre fragilità, le nostre debolezze. La nostra vulnerabilità.

Ma se portiamo questo approccio fuori dallo studio televisivo, magari dentro un’azienda, che succede? C’è spazio anche lì per lasciar stare la perfezione e raccontare qualcosa di vero?

Nel Gruppo Teddy ci stiamo provando da un po’. Belong nasce proprio con questo spirito: condividere storie vere, senza filtri. Non successi da copertina, ma percorsi fatti di tentativi, cambi di rotta, scelte coraggiose. Persone vere, insomma.

Anche in Belong, come in Belve, ci sono due protagonisti: chi racconta e chi ascolta. È un incontro, più che un’intervista. Nessuno recita, nessuno sale in cattedra. E spesso succede qualcosa di inaspettato: nel raccontarsi, si scopre qualcosa di sé. Si rimettono insieme i pezzi, si dà un senso a cose che sembravano solo confusione. A volte, si guarda il proprio lavoro da un’altra prospettiva. E si ritrova il perché.

Essere autentici non è una posa, è una scelta. E sì, qualche volta è una faticaccia. Perché mostrarsi per come si è davvero richiede coraggio. Significa anche dover dire “non lo so” quando serve. Ammettere un errore. Ma è anche l’unico modo per creare relazioni vere. Quelle che fanno sentire di appartenere a qualcosa.

Viviamo in un momento in cui la realtà ha ricominciato a contare. Le persone – che siano spettatori, clienti, colleghi – non cercano perfezione. Cercano umanità. Vogliono sapere che dietro a un marchio, a un ruolo, a un mestiere, ci sia qualcuno che ci mette la faccia. Che prova, sbaglia, riparte.

Ecco perché Belve e Belong si somigliano più di quanto sembri. Entrambi mettono al centro l’incontro. Entrambi scelgono di raccontare anche l’incompiuto, non solo il confezionato. Perché è lì, nell’imperfezione condivisa, che si costruisce il senso di appartenenza.

In un’intervista non conta solo cosa si dice. Conta la pausa prima della risposta. Il sorriso imbarazzato. Il momento in cui si sceglie di essere sinceri. Allo stesso modo, in un’azienda che vuole essere comunità, non contano solo i numeri. Conta l’aria che si respira. La possibilità di portare sé stessi, davvero, ogni giorno. E magari scoprire che proprio quella parte lì – quella vera – è la più preziosa.

Far parte del Gruppo Teddy vuol dire questo. Non entrare in un format già scritto, ma contribuire con la propria storia. Non imitare, ma ispirare. E alla fine, come in ogni intervista riuscita, quello che resta non è la perfezione, ma la presenza. Non una finta strategia, ma una relazione.

In fondo, Belve ci ricorda – e noi lo viviamo ogni giorno – che la verità può far tremare le gambe. Ma è anche il solo modo per creare qualcosa che valga davvero. Che resti. E che ci faccia dire: “Sì, io qui ci sono. E ci voglio stare”. Perché appartengo.