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Il paradosso dei Lego: si costruisce con la propria storia

I modelli di business non sono una verità granitica e tutti devono tener conto di un fattore di rischio costante per chi fa impresa. Ma cosa fa davvero la differenza? Dalla crisi al successo, ecco quanto è importante la fedeltà alla propria storia. 

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È il 1932 e, in Danimarca, un falegname di nome Ole Kirk Christiansen inizia a produrre piccoli giocattoli di legno a incastro. Siamo ancora ben lontani da quello che quei giochi di legno sarebbero diventati nel tempo, ma già allora era presente il cuore di una storia che prosegue ancora oggi grazie ad una semplice intuizione: io sono protagonista del gesto che compio, del gioco a cui dedico il mio tempo. Negli anni ‘50 arriva la prima svolta per quella realtà, ormai azienda, dal nome ben preciso: Lego. Il nome è una sintesi di un’espressione danese leg godt, “gioca bene”, ed è proprio a partire dal nome che nasce un modello di business basato sull’attività compiuta attraverso i mattoncini.

Ma parlavamo di una svolta, e in effetti fu proprio così perché, a metà del secolo scorso, i mattoncini il legno si trasformano e diventano di plastica tra lo stupore di tutti coloro che li videro arrivare sul mercato. Il fondatore dell’azienda è ancora protagonista del brand che, a quel punto, si trovò ad affrontare la prima vera crisi. Le persone non erano abituate alla plastica, avevano familiarità con i giochi in legno, un materiale considerato pregiato oltre che valido. Ma Christiansen voleva rendere il gioco ancora più creativo, mettendo al centro, ancora una volta, le persone. La semplicità di produzione dei mattoncini in plastica consentiva maggiori quantitativi di lego disponibili per ogni giocatore che poteva, in questo modo, uscire dagli schemi e creare qualcosa che fosse autenticamente frutto della propria immaginazione. Il falegname danese andò contro tutto e tutti, convinto che la propria idea fosse sincera e valida; non sopravvisse purtroppo fino a vedere il successo che i suoi Lego raggiunsero nel mondo. Ma le cose andarono proprio così.

La storia dei Lego ha l’incipit che ricorda quasi una favola moderna, dal proprio saper fare, la propria arte, nasce l’intuizione a cui fa seguito una proposta: giocare. Ma anche le favole sono soggette a cambiamenti ed evoluzioni e i Lego non fanno eccezione.

L’azienda si espande, il successo ormai è consolidato e lo è in maniera trasversale tra le generazioni. Piccoli e grandi usano i mattoncini per creare e anzi, sono proprio gli adulti che contribuiscono in misura maggiore alla ripresa dell’azienda dopo lo shock iniziale del passaggio alla plastica. Superato l’ostacolo, la leadership dell’azienda decide di rilanciare, osando in terreni fino ad allora inesplorati.

Negli anni ‘90, con il boom dei videogame e dei parchi a tema, anche Lego decide di seguire il trend della diversificazione e lancia linee di abbigliamento, partnership strategiche, parchi tematici e addirittura gioielli. Ma il pubblico non risponde come previsto e Lego attraversa una nuova grande crisi.

Questa crisi porta l’azienda a sfiorare il fallimento: ma per quale ragione? Il nuovo modello di business, dopotutto, non era così diverso da quello che altre aziende stavano portando avanti e con successo; basti pensare alla Disney che ha fatto dei parchi a tema una parte consistente del proprio business. Forse perché, questa volta, non si trattava di un cambiamento aderente al prodotto, ma di una rivoluzione vera e propria che aveva perso  contatto con i tasselli fondamentali. Un paradosso: la Lego degli anni ‘90 aveva dimenticato il cuore della propria storia, aveva perso i mattoncini.

Questa parte della storia ha sempre costituito un grande elemento di curiosità e fascino per noi; il Gruppo Teddy condivide con Lego quell'intuizione iniziale da parte di una persone, nel nostro caso il nostro fondatore Vittorio Tadei, ma soprattutto condividiamo la stessa sfida: come vivere il cambiamento rimanendo fedeli al cuore della nostra storia? La moda è attraversata da continui trend, cambiamenti e rivoluzioni che riflettono il tessuto dei nostri territori a cui siamo costantemente chiamati a rispondere. Ma cosa rende possibile abbracciare davvero il cambiamento, guardare al futuro, evolvendo, ma non tradendo la nostra essenza più profonda?

Lego lo ha imparato a proprie spese, ma la consapevolezza e il desiderio sono, per fortuna, una base solida da cui ripartire. E anche il brand dei mattoncini è ripartito proprio da questi due punti essenziali. Nel 2017 l’azienda sceglie un nuovo amministratore delegato, Niels Christiansen, ed elegge un nuovo presidente nel 2020, Thomas Kirk Kristiansen, proveniente dalla quarta generazione dei Christensen. Insieme operano una sorta di controrivoluzione: via il superfluo, ripartiamo dalla nostra storia. Il mattoncino diventa di nuovo protagonista. Ma se pensate che si siano limitati ad eliminare il superfluo, commettete un errore. La vera sfida, quella che condivide chiunque faccia impresa, è quella di innovare, rimanendo fedeli a se stessi, ma non tagliando via aspetti della realtà. E così la nuova Lego abbraccia davvero il mondo dei videogame, del cinema, delle serie tv, ma lascia il protagonismo e l’iniziativa alle persone. Da questa nuova consapevolezza nascono i set Lego dedicati ai film più amati, alle serie e ai giochi più seguiti dal pubblico che, dallo schermo, piccolo o grande che sia, portano nelle loro case e con la propria creatività, la magia delle storie più amate.

Ecco cosa ci affascina e cosa cerchiamo di imparare ogni giorno: ripartire dalla propria storia, riappropriarsi di un’intuizione, ma non smettere mai di guardare quello che accade intorno a noi. Perché ciò che ci ispira davvero, nella storia di Lego, è il coraggio di custodire un’identità senza rinunciare al cambiamento. È l’idea che si può innovare senza sradicare, crescere senza dimenticare. È la tensione continua tra memoria e possibilità nuove. Ci invita a ricordare che ogni giornata, anche la più ordinaria, è fatta di piccoli “mattoncini” di senso: relazioni, gesti, intuizioni, errori, scelte. Sta a noi decidere di usarli per costruire, per collegare, per immaginare qualcosa di nuovo che però non tradisca chi siamo. E questo, per noi in Teddy, è molto più che un principio aziendale: è un modo di affrontare il lavoro. È il nostro modo di “giocare bene".