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Le mani che fecero l'Italia

Nelle aziende familiari succede ciò che succede di solito nelle famiglie, comprese quelle che formalmente non sarebbero aziende. Ma senza un minimo di atteggiamento imprenditoriale (dedizione alla causa, capacità di innovazione, propensione all’investimento, gestione del rischio) ormai non c’è famiglia che possa reggere. 

ALESSANDRO ZACCURI,APPARTENENZA,FAMIGLIA

Tra le voci d’autore che arricchiscono il percorso editoriale di Belong, ci piace accogliere riflessioni che, pur nascendo fuori dall’impresa, riescono a raccontare profondamente ciò che ci muove ogni giorno: il valore delle relazioni, la forza (innovatrice) della memoria, il senso del costruire insieme, la comunità che genera appartenenza.

A firmare questo intervento è Alessandro Zaccuri: giornalista, scrittore e direttore della Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il suo ultimo libro è il romanzo Le ombre (Marsilio, 2025) - fine osservatore delle dinamiche familiari e intergenerazionali. In questo testo, profondo e personale, Zaccuri ci accompagna in una riflessione sul passaggio generazionale all’interno delle famiglie e delle aziende familiari, svelando come la vera eredità non passi solo attraverso la trasmissione di un ruolo o di una carica, ma anche attraverso gesti quotidiani, stili di pensiero, intuizioni che si tramandano senza clamore: un modo di essere nel mondo.

Attraverso il suo sguardo - personale e universale al tempo stesso - l’impresa emerge come una comunità intergenerazionale, dove ogni transizione è contestualmente un atto di fedeltà e di reinvenzione. Un’idea che sentiamo profondamente nostra, perché parla di continuità viva, di radici che non immobilizzano ma nutrono il futuro. 

Un contributo prezioso che ci invita a guardare il passaggio di testimone non solo come un’eredità da custodire, ma come una scintilla da rigenerare ogni giorno, dando voce a quella fedeltà creativa che tiene insieme le generazioni e costruisce il futuro.

di Alessandro Zaccuri

Nelle aziende familiari succede ciò che succede di solito nelle famiglie, comprese quelle che formalmente non sarebbero aziende. Ma senza un minimo di atteggiamento imprenditoriale (dedizione alla causa, capacità di innovazione, propensione all’investimento, gestione del rischio) ormai non c’è famiglia che possa reggere. 

Un mio amico sacerdote lo spiega servendosi di un’immagine semplice e convincente. «Fino a mezzo secolo fa – dice – mettere su famiglia era come lanciarsi in pista con il bob. Il tracciato era quello, non si poteva sbagliare, altrimenti si era sbalzati fuori. Non ci si facevano domande, si replicava quello che si era visto fare dai genitori, dai nonni. Da un certo punto in poi, invece…».

Ecco, noi siamo nell’era dell’invece. La famiglia è chiamata a reinventarsi di continuo, di modo che non ce n’è una che assomigli in tutto e per tutto a un’altra. Con buona pace di Tolstoj, per il quale a differenziarsi tra di loro erano solo le famiglie infelici. Per quelle felici, come sappiamo, bastava e avanzava la regola del bob. Oggi, al contrario, ci vuole molta inventiva per essere felici. Se di qualcosa muore, anche la famiglia muore di poca fantasia.

L’entusiasmo per il cambiamento non può e non deve andare a discapito della cura per la tradizione, che è l’altra forza – sotterranea e spesso sottovalutata – sulla quale si fonda il successo di ogni famiglia e, conseguentemente, di ogni azienda familiare. In entrambe le circostanze, la trasmissione di valore avviene per via di contagio, sempre imprevedibile e, di norma, pressoché invisibile. Ancora una volta, è una situazione che ritroviamo in ogni casa. Un giorno, all’improvviso, ti accorgi che un bambino solleva la testa, come faceva il nonno che non ha neppure conosciuto. Allo stesso modo, una bambina si lega i capelli come fa la zia che vive dall’altra parte del mondo e che lei ha sì conosciuto, ma per un tempo brevissimo, perso in una regione che parrebbe fuori dalla memoria. Più misterioso di tutti, è il riproporsi di uno specifico senso dell’umorismo da una generazione all’altra. Nella maggior parte dei casi, è quello che una volta si chiamava “spirito di patata” e che adesso si qualifica come dad’s jokes: le battute da papà o, meglio, da papà del papà. O, magari, da papà della mamma.

Il maggiore dei miei figli ha lo stesso sguardo sul mondo che aveva il padre di mia moglie. Un uomo nato nella campagna piacentina all’inizio degli anni Trenta, arrivato a Milano come artigiano, poi entrato come operaio in un’industria all’epoca molto famosa. Nel frattempo, aveva rubato tutti i mestieri, come raccontava lui. Era una metafora, una delle poche che si permetteva: “rubare”, per lui, significava guardare con attenzione il modo in cui gli altri lavoravano, apprendendo dall’esempio che il muratore o l’idraulico o l’elettricista neppure si rendeva conto di stare impartendo. A ciascuno di questi professionisti (la parola non era in uso, ma il senso era quello) mio suocero rubava “la malizia”, che era la seconda voce ricorrente nel suo scarno elenco di metafore. Dal suo punto di vista, la malizia era il trucco del mestiere: come cavarsela come una vite spanata, come fare a meno di un attrezzo che sarebbe indispensabile eccetera eccetera. Conservava qualsiasi cosa, nella convinzione – il più delle volte comprovata – che prima o poi qualsiasi cosa sarebbe tornata utile. Quando entrava in un negozio, assumeva un’aria sorniona, da intenditore. Sapeva che cosa gli serviva e, se il negozio ne risultava sfornito, chiudeva il discorso con un giudizio lapidario: «Quello che hanno, non manca niente».

In certi momenti, mio figlio maggiore sembra il suo ritratto vivente. Ha altri interessi, fa un lavoro che molto probabilmente il nonno non sarebbe riuscito a comprendere, ma basta andare con lui dal ferramenta e la sensazione è irrevocabile. Fermo davanti all’espositore, valuta in silenzio ogni articolo, sembra propendere per un certo acquisto, ma subito cambia idea, seguendo il filo di un ragionamento sempre dato per sottinteso. Quando ci capita di assistere alla scena, mia moglie e io ci scambiamo un sorriso d’intesa. È come se mio suocero fosse lì con noi. Una parte di lui (e una parte tanto caratteristica, aggiungo) non è morta. Non morirà mai.

Nelle aziende familiari accade lo stesso, secondo uno schema non programmabile eppure riconoscibile. Più riconoscibile di quanto si sia disposti ad ammettere, e anche questo fa parte del problema. La retorica corrente, infatti, vuole che le imprese italiane siano sottomesse al sortilegio della seconda generazione: i padri fondatori prosperano, i figli dissipano per inettitudine o per megalomania (la megalomania, del resto, è una forma peculiare di inettitudine). Ma siamo sicuri che questa sia davvero la regola e non una sfortunata eccezione, purtroppo replicabile in presenza di patrimoni particolarmente consistenti?

Anziché limitarsi ad analizzare i grandi gruppi, sarebbe bene concentrarsi sulla realtà delle piccole e medie imprese, lungo l’infinita gamma di sfumature che dal piccolissimo sconfina nel mediamente grande. Sono storie che nemmeno i protagonisti si prendono la briga di raccontare, perché ciò che appare evidente tende a sottrarsi alla fascinazione del racconto. Benché implicita, questa testimonianza di complicità generazionale sta alla base di tante imprese di successo. Complicità, ripeto, e non alleanza, che pure è un termine nobilissimo, ma in qualche misura inadeguato a descrivere il fenomeno. In molte aziende, il passaggio di consegne (e di metodo, di competenze, di stile) avviene in maniera istintiva, non deliberata. Ci sono episodi di figli o di figlie che, al momento di essere cooptati nell’impresa di famiglia, si ripromettono di non seguire il modello offerto dai genitori e che poi, in capo a qualche anno, comprendono in profondità – per via di esperienza, non di analisi razionale – le motivazioni profonde delle scelte fatte da chi li ha preceduti. In questi momenti cruciali, si ha finalmente la possibilità di fare la stessa cosa in un modo diverso. La stessa cosa, perché la radice è comune. E in modo diverso, perché fedeltà non è mai ripetizione dell’identico: fedeltà è sempre riscoperta del nuovo

Come ogni favola che si rispetti, anche questi romanzi d’impresa hanno la loro morale, che in via provvisoria si potrebbe sintetizzare così: non si sa mai che cosa impara una ragazza o un ragazzo quando fa finta di non imparare niente. Vale in famiglia, vale a scuola, vale – a maggior ragione – quando si entra in azienda.