">
Nonostante non abbia vinto l'Oscar, "The Holdovers" è il nostro vero vincitore per la sua capacità di esplorare con delicatezza le incomunicabilità generazionali, per il suo realismo e per la sua capacità di risuonare profondamente con il pubblico.
“The Holdovers” non è un film innovativo, anzi, è una pellicola eminentemente classica nelle scelte stilistiche: dall’utilizzo della fotografia passando per una colonna sonora che somma tante piccole perle (tra cui spiccano i brani di Damien Jurado e “Crying, Laughing, Loving, Lying” di Labi Siffre) cercando di ricreare un mood retrò caldo e rassicurante. Non è un film, quindi, che ha in sé quel portato rivoluzionario che era proprio di altre pellicole in lizza all’ultima notte degli Oscar. Forse proprio per questo non ha vinto, eppure il film di Alexander Payne ha quella capacità forse un po’ démodé ma sempre efficace di risultare dolce e accogliente agli occhi di chi guarda.
A noi di Teddy "The Holdovers" è piaciuto, molto, tanto da considerarlo il vero vincitore di questa edizione, almeno nella nostra personale classifica. Non siamo gli unici a quanto pare. Sarà per quella capacità di raccontare il superamento delle incomunicabilità generazionali come racconta Vanity Fair, secondo cui “mondi completamente differenti riescono a dialogare tra di loro, a comprendersi e fare di questo patrimonio comune un legame così forte che diventa non indissolubile”. Oppure per quella sensazione di star guardando un feelgood movie, come lo definisce Gwilym Mumford sul Guardian. Sarà anche vero che l’Academy preferisce premiare film magniloquenti e con un sottofondo di durezza e pessimismo che sicuramente non appartengono al film girato da Payne. “The Holdovers” riesce piuttosto a farci scoprire cose che non avremmo immaginato, in linea più con le sensazioni restituite da “Perfect Days” di Wim Wenders che con le esplosioni atomiche di Nolan e del suo “Oppenheimer”.
Ci troviamo di fronte a una pellicola che sa raccontare con delicatezza il superamento delle differenze e dell’incomunicabilità. Siamo nel 1970, in una scuola del New England, la Barton Academy, una scuola realmente esistente ma che nel film viene restituita attraverso un amalgama di differenti location situate in Massachusetts. Qui Paul Hunham, interpretato dal candidato all’Oscar come miglior attore Paul Giamatti, è un impopolare ma simpatico (almeno se non si è un suo studente) insegnante di lettere classiche. A causa di una piccola truffa da parte di un collega si trova a supervisionare un gruppo di giovani allievi rimasti nella scuola durante le vacanze di Natale. Tra questi compare all’ultimo istante Angus Tully (Dominic Sessa), un più che sveglio ma problematico alunno con cui Hunham ha un rapporto inizialmente conflittuale e spigoloso. Il film si regge magistralmente sulle performance dei due attori, a cui si aggiunge l’interpretazione - questa fortunatamente da Oscar - di Da'Vine Joy Randolph che nel film interpreta Mary Lamb, la cuoca dell’istituto che ha recentemente perso il figlio in Vietnam e che, come gli altri due, resta ferma all’interno della scuola.
È singolare, e possiamo pensare sia una scelta assolutamente voluta, che la storia cresca intorno al tema del rimanere bloccati. I tre personaggi principali infatti, per motivi differenti e che vanno dal lutto al rancore, passando per la rabbia e l’impotenza, si ritrovano a vivere improvvisamente da soli i giorni dell’anno in cui “nessuno dovrebbe mai rimanere solo”. Li accomuna però un sentimento difficile ma prezioso come il dolore. I giorni che vanno da quelli precedenti al 25 dicembre e i primi di gennaio ci raccontano la storia di esseri umani fragili, che in quei giorni riusciranno a scoprire molto l’uno dell’altro. È proprio grazie alla condivisione e alla conoscenza del rispettivo dolore che i tre riescono a scoprire di avere in comune molto più di quello che pensavano.
È così che scopriamo, un pezzetto alla volta - da qui ci sono piccoli spoiler, fermati se non hai ancora visto il film! – che la durezza e l’alcolismo del professor Hunham non sono altro che il frutto di un risentimento nei confronti di errori commessi durante la sua gioventù, la stessa fase della vita che sta vivendo il giovane Angus che con il professore condivide già una serie di dolori personali e fallimenti (è stato, ad esempio, cacciato da più scuole e rischia di finire in un’accademia militare) che lo rendono molto più vicino al suo insegnante di quanto creda. È interessante notare come con il passare dei giorni quello che sembra un rapporto assolutamente conflittuale si modifichi fino a diventare una sorta di storia tra un giovane allievo e il proprio mentore. Un mentore che in questo caso si allontana leggermente dai personaggi della mitologia greca, per vestire i panni di un più moderno consigliere capace di mostrare al supponente e rabbioso Angus come la vita possa riservare sempre una seconda occasione. Per farlo il professor Hunham metterà in atto un altrettanto moderno atto di sacrificio, capace di insegnare al ragazzo molto più di quanto potrebbero i libri che egli stesso consiglia e regala.
Di riflesso, per il professor Hunham venire a conoscenza della malattia del padre di Angus aiuta la scoperta del mondo in cui il ragazzo si è formato: dal dolore per la lontananza della figura paterna, al rapporto difficile con una madre che sembra allontanarlo per non guardare negli occhi il dolore di una relazione - quella con il padre psicotico - che le ha segnato la vita. I due protagonisti danzano in un ballo fatto di battute, sorrisi, insegnamenti e dolce amara malinconia. Grazie anche all’accettazione del dolore della cuoca Mary Lamb, alla sua capacità di non lasciarsi sopraffare dal lutto, il film scorre delicatamente verso un finale che lascia aperta la porta alla speranza di una seconda possibilità. Ad un nuovo rapporto di fiducia con le occasioni della vita.
“The Holdovers” ha la capacità sempre più rara di raccontare storie di fiducia umana, dove aprirsi verso l’altro e consigliarlo senza essere giudicanti diventa merce unica e sempre più difficile da trovare. C’è la storia di un uomo che nonostante le disavventure della giovinezza ama il proprio lavoro fino al punto di sacrificarlo per poter salvare un alunno di cui ha conosciuto la fragilità e il dolore. C’è una cuoca che usa la cucina per sollevare gli altri, apparentemente dura e inscalfibile, cela sotto questa apparente corazza la dolcezza di chi conosce il senso della perdita. Noi lo abbiamo amato perché autentico, pieno di realismo e capace come poche altre pellicole di parlare all’anima di chi guarda, risuonando nelle corde interiori dello spettatore. È un film che racconta di arricchimento e crescita, di un lavoro che se fatto con amore e passione può cambiare la vita delle persone, esattamente come immaginiamo sia anche il nostro.